“Non c’è”

Dunque, questa è la cosa su cui ho perso un bel po’ di sudore. Se volete il pdf sta qua >> www.blockmia.it/racconti

Arrotolo l’ennesima sigaretta, che fumerò a metà. Nauseata più dal gesto che dal sapore, o dalla sensazione di catrame aggrappato ai polmoni.
È un’altra giornata senza fine, ragazza mia, un’altra giornata passata a tergiversare, attraversata cercando altro da non fare pur di non.

La bottiglia è aperta, basterebbe appoggiarci le labbra, tirare indietro la testa e lasciar scivolare in gola qualcosa che conosco bene. Ma non è più tempo nemmeno per questo, la mente annebbiata e svegliarsi la mattina con il sapore del fegato sulla lingua.
Spengo la sigaretta a metà.
Fuori sta facendo buio. Come ieri del resto, e poi domani.

Mi si spezza il fiato.

Qualunque cosa io decida di fare stasera. Non c’è immagine nitida e reale di me domani, che io resti qui, ad arrotolare sigarette da fumare a metà, o che decida di alzarmi da questa sedia per uscire, per andare.

Qualcosa si è rotto. Mille piccoli pezzi indistinguibili l’uno dall’altro.

Mi alzo, faccio pace con la bottiglia. Sento ancora dolore. Sono stanca. Sorrido alla mia immagine riflessa nel vetro della finestra. Se sorridere è questa leggera flessione verso l’alto dell’angolo destro della mia bocca.
Do un altro bacio alla bottiglia.
La fracasserei contro il muro, non fossi stanca anche di questi gesti violenti che non mi lasciano più niente. I primi tempi funzionavano. Per un attimo, breve ma vitale, il corpo tornava leggero e la mente, per un attimo lucida. Libera. Libera di guidare i pensieri, di dirigerli. Libera di perdersi.

Mi scuoto.

Lascio andare gentilmente la bottiglia sul ripiano della cucina.
Arrotolo un’altra sigaretta, apro la porta, esco in giardino. Ho deciso. Questa la fumo tutta. Un tiro alla volta. Mi siedo sul gradino di cemento, faccio una smorfia. E mi prendo la testa tra le mani, vorrei strapparmela dal collo e lanciarla lontano. Lascio la presa, infilo la sigaretta in bocca, l’accendo, aspiro, trattengo il fiato. Trattengo il fiato. Trattengo il fiato. Trattengo il fiato.

Sputo aria e fumo, lentamente.

Non c’è immagine nitida e reale di me domani, e nemmeno lacrime, adesso, che leniscano il dolore. Né gesti che assopiscano la rabbia, addormentino il corpo e la mente.

Questa rabbia.

Appoggio la tempia contro lo stipite della porta. Poi la allontano, e colpisco lo stipite. Piano. Mi scosto di nuovo, colpisco ancora lo stipite della porta. Più forte. Poi di nuovo. Ancora più forte. Resto immobile, e immagino di fracassarmi il cranio un colpo dopo l’altro.

Non riesco a guidare i pensieri, non riesco nemmeno a crearli, a filarli nella mente.

Potrei fracassarmi il cranio, sentire il sangue colarmi sul viso, sul collo. Riuscirei a sentire il suono secco dello schianto dell’osso prima di morire?

La sigaretta si fuma da sola.

Mi volto verso la cucina, verso casa. Sul tavolo il pezzo di carta e inchiostro risalta bianco in contrasto con il nero del tavolo. Mi alzo, entro in cucina, faccio un tiro e un altro po’ di catrame mi si aggrappa ai polmoni mentre afferro il piccolo pezzo di carta. Lo guardo. La calligrafia di Giulia è ordinata, come sempre. Mi domando come abbia fatto, che giri sia riuscita a scardinare per farmi ottenere queste quattro, cinque parole di inchiostro blu.

Quando le ho detto che forse mi sarei sentita meglio se avessi potuto almeno ferirlo il suo viso ha fatto una pausa. Non ho aggiunto altro, ho lasciato navigare nella birra che mi aveva offerto quel laconico potessi almeno ferirlo.

Ferirlo.

Colpirlo. Forse. Ma sono solo pensieri. Sono solo visioni distorte. Immagini che si fanno e si disfano nella mia testa. Colpirlo. Ferirlo. Lui. Tutti.

E Giulia ha capito. Due giorni fa mi ha chiamato. L’ho trovato, mi ha detto. Ho l’indirizzo, passo a lasciartelo.

E io adesso devo solo fare una scelta.

Cammino, avanti e indietro, poi verso destra, poi subito verso sinistra, poi di nuovo indietro. È un male senza tregua, senza cura. Vago. E il mio corpo, tutto, mani, braccia, gambe, ventre, vaga. Sbando, nessun luogo per me. Nessun luogo. Nessun domani. Dolore. Perdita. Vuoto. Assenza. Colpa. Rabbia. Qualcosa si è rotto. E il pezzo di carta è qui, accartocciato nel palmo della mia mano. Un indirizzo, una destinazione da inserire nel navigatore. Io non lo volevo neanche. Mi hai convinta tu. Tu. Non più. La bottiglia. La tocco. Il pezzo di carta. Lo stringo. In mano, cosa ho? Strazio. Infinito, interminabile strazio. Strazio, strappare, scarnificare. Sono qui. Straziata. Strappata. Scarnificata.

Devo muovermi. Se resto immobile sono statua di sale. Sono vittima. Mi muovo, cambio stanza, cambio luogo. Poso lo sguardo su altri oggetti, ma mi incidono il cuore. Vorrei essere cieca. Sorda. Muta. Cambio ancora, cammino come avessi una meta. Uno scopo.

Ma il mio scopo è fuori da qua.

Il mio scopo è fuori da qua.

Perché. Se io ti restituisco ciò che mi hai lasciato, smetto di sopravvivere e ricomincio a vivere? Se ti lego, e ti torturo, e ti ferisco, mi libero del cemento che mi pesa nel ventre?
E se ti strappo le unghie, se ti spezzo le dita, se ti cavo gli occhi, io dopo.

Io, dopo, posso avere un domani?

Ma non è a te che penso, e nemmeno a me. Penso a lei. Lei.
Lei.
Occhi verdi.

E se ti ammazzo, se lascio che il sangue ti scivoli via, lei non torna ma io? Io torno?

Cazzo. Non riesco. Non riesco a centrare il pensiero. Morte chiama morte. È questione di equilibrio. Assenza presenza.

Sono di nuovo immobile. Non me lo posso permettere. L’immobilità genera pensieri pesanti, monolitici. Che sedimentano e non permettono la giusta riflessione.

So dove sei.

Devo solo venirti a prendere.

Venirti a prendere.

Vengo a prenderti.

Non te lo aspetti. Non sai. Le conseguenze del tuo gesto sono arrivate fino a dove uno come te nemmeno sospetta che si possa giungere.

Questa è la prima cosa per cui verrai punito. L’ignoranza.

Vengo a prenderti.

Apro la porta ed esco in strada. Salgo in macchina, infilo le chiavi nel quadro, metto in moto. E sono tranquilla. Guido, e mentre guido inserisco i dati nel navigatore. Sarà lei a portarmi da te. Mi sembra giusto.

Guido, piano. Non ho fretta. Non c’è scadenza per quello che devo fare. E quello che farò, qualunque cosa io faccia, non riporterà indietro i suoi occhi verdi. Non colmerà l’assenza. Ma l’equilibrio deve essere ripristinato. In qualche modo le cose devono tornare al loro posto. In qualche modo io devo liberarmi.

Vengo a prenderti.

Le ho detto la stessa cosa. Vengo a prenderti, hai bisogno di uscire, di prendere aria, vedere gente, bere qualcosa. Mi hai preso in giro, mi hai chiesto se era un appuntamento. Mi sono messa a ridere, ti ho risposto magari. E poi ti ho detto che no, non era un appuntamento, che non ci provo mai due volte con la stessa persona e che chi non mi vuole non mi merita.

Siamo uscite, abbiamo scelto un bar con i tavolini fuori, abbiamo ordinato e bevuto un paio di bicchieri di vino.
Stavi perdendo lo sguardo dell’animale braccato, riuscivi a farti avvicinare dalle persone senza trattenere il fiato come chi si prepara a subire. Un colpo, una parola.
E per un attimo, lo so, l’ho visto, hai dimenticato.
Il tuo passato di luci spente e chiavi nella porta che fanno tremare le mani e le viscere. Hai dimenticato. Ed eri solo tu. Luisa. Con i tuoi occhi verdi. Hai dimenticato, l’ho visto, l’ho sentito. I calli delle sue mani sul tuo viso, e le grida soffocate, le lacrime negli occhi gonfi. Hai smesso di maledirti e maledirti ancora per essere rimasta fino alla fine, fino alla fine della sopportazione e oltre. Ed eri solo tu. Luisa. Niente costole incrinate, niente denti rotti, niente ginocchio da riabilitare. Niente amore che si tramuta in bestia. L’ho visto. Ad un tratto ti sei voltata, verso sinistra, non guardavi niente di particolare, e sei rimasta così, sospesa di fronte ad un futuro possibile. Niente famiglia che ti dice sopporta, niente amiche che ti dicono sopporta, niente vicini che ti biasimano e voltano la testa dall’altra parte. Solo tu. Sospesa di fronte ad un futuro possibile. Ed io ti guardavo e pensavo che ce l’avresti fatta. Ho pensato che in un anno da quando ti avevo visto la prima volta avevi fatto dei progressi inimmaginabili. Ho pensato che tutto sarebbe andato a posto. Che magari avresti trovato un fidanzato fichissimo, e io una fidanzata fichissima e avremmo passato la vita tra cene e vacanze, con la mia fidanzata in fondo in fondo sempre un po’ gelosa perché alla fine sei Luisa, la donna dagli occhi verdi. Ho pensato che ce l’avresti fatta, fidanzato fichissimo o no, a riprenderti tutto, tutto quello che ti aveva portato via. E che saresti stata libera. Io mi sono sentita libera. Libera di poterti pensare sana e salva.

Questo non lo hai voluto accettare.
Ecco il secondo motivo per cui verrai punito.
Il non aver voluto accettare.

Di questo si tratta.
Volontà.
Di colpire, ferire, massacrare. Questo è. Volontà di annientare, sottomettere ciò che per natura è indipendente. Ciò che per natura può essere triste quando tu la vuoi sorridente. Ciò che per natura può essere stanca quando invece tu vuoi che pulisca il tuo sporco. Ciò che per natura può fare rumore quando invece tu hai imposto il silenzio. Ciò che per natura non ti appartiene quando invece pensi che sia solo cosa tua. Ciò che per natura parla quando la vorresti muta. Ciò che per natura respira e vive, quando tu la vorresti morta. Volontà di frantumare ciò che per natura è specchio che ti restituisce l’immagine tua, sporca e vigliacca. Debole.

Ecco il terzo e il quarto motivo per cui verrai punito. La tua volontà e la tua debolezza.

Guido. Lentamente, senza fretta. Sono arrabbiata, ma guido senza fretta. Non c’è traffico a quest’ora. Come dice la canzone? Siete tutti seduti davanti alle vostre televisioni. Rallento ancora, guido con le ginocchia e con le mani mi arrotolo una sigaretta. Questa, lo so, la fumerò tutta.

Apro il finestrino, lascio che l’aria mi spettini. Fumo. Fumo. Fumo.

Quando ci siamo conosciute mi hai detto che ti sembrava strano che una che di lavoro rimette a posto le persone rotte si intossicasse i polmoni con le sigarette. E io ti ho risposto, dopo averti chiesto di provare a piegare il ginocchio, che chi rimette a posto le persone rotte ce lo deve avere un vizio, almeno uno, altrimenti non rimette a posto un bel niente.

Fumo. Lascio che il vento mi spettini. Mi manchi. È una voragine profonda. Mi manca il tuo sguardo, e la tua voce. Cesca, dammi retta, mettitela una gonna qualche volta. E io che ti rispondo manco morta. La tua calma. E la tua forza, la lucidità.

Marisa me lo aveva detto quando sono andata a prendere la tua scheda. Cesca, questa ha qualcosa, qualcosa di diverso. Questa ce la fa. Fai attenzione, se ti conosco come ti conosco ti innamori e ci rimani secca.

Sempre così diretta la Marisa. Nessun’altra mi avrebbe convinto a fare la fisioterapista in una casa di accoglienza per donne maltrattate. Nessun’altra. Diretta, la Marisa.

Aveva una luce negli occhi quando mi ha detto che eri morta che non riesco a togliermela dalla testa. Non l’avevo mai vista così, mai. Pensavo si sfacesse in mille pezzi, lì, davanti a me. Sembrava portare addosso, improvvisamente, il peso di tutte le donne che non ce l’avevano fatta, che non era riuscita a portare in salvo, al sicuro, in un modo o nell’altro. E io mi sarei frantumata con lei. Per lei, per te, per me, per tutte. Frantumata in mille pezzi, se non mi avesse detto, lentamente, che la polizia aveva archiviato tutto come aggressione da parte di ignoti. Mi sarei schiantata se non avesse detto l’infame dorme ancora nel suo letto, capito? Ha un alibi. Capito Cesca?

Ho capito.

Ho capito, Marisa.

Guido. Manca poco. Vivi solo. Questo lo so. Spero sia ancora così.

Ma adesso che arrivo, che arrivo da te, che scendo dalla macchina, che suono al tuo campanello, che tu poi apri, non mi conosci, mi chiedi chi sono, io che faccio?

Cosa ti dico?

Un passo alla volta.

Parcheggio. Spengo la macchina. Resto seduta, penso. Frugo nella borsa. Prendo la spara chiodi. Mi torna in mente la faccia di mio padre, che cerca nei suoi scaffali e ancora non capisce a cosa mi possa servire la sua sparachiodi. Sorrido, e penso che se glielo avessi detto non avrebbe mosso un muscolo per fermarmi.

Sto davanti alla tua porta per un po’.

Poi suono, stendo le braccia, impugno la sparachiodi con tutte e due le mani. Cerco di indovinare quanto sei alto. Aspetto. La porta si apre. La sparachiodi ti inquadra all’altezza del naso. Fai quasi ridere perché la fissi, e fissandola ti vengono gli occhi strabici. Balbetti qualcosa, ti sovrasto, ti dico stai zitto, ti dico entra. E penso che evidentemente ti ho preso alla sprovvista. Entriamo. Non mi guardo intorno, chiudo la porta con il piede. Guardo te, finalmente. Ti guardo, ogni dettaglio di questa faccia da stronzo che ti ritrovi. Sei come ti immaginavo. Vile. Molliccio. Patetico. Ti fisso. Sudi. Fai per aprire la bocca, lo vedo, leggo l’intenzione nel movimento dei muscoli facciali. Ti anticipo. Ti dico stai zitto. Vuoi sapere quanto tempo ci vuole per rimettere a posto una mascella fratturata? Quasi quasi te lo spiego. Dietro di te c’è una sedia, ti dico siediti, ma rimani immobile. Quasi quasi ti sparo davvero. Ti dico di nuovo siediti. Stavolta ti muovi, cammini all’indietro. Non mi dai le spalle. Fai qualche passo. Cerchi la sedia con la mano. Sai quanto tempo ci vuole a far guarire le dita fratturate? La trovi, ti siedi. Sai quanto fa male la frattura dell’osso sacro? E una costola incrinata? E un pugno? E una bastonata? E cascare dalle scale? E sbattere contro un muro?
Sudi. Mi guardi. Perché non ti alzi e non mi strappi la sparachiodi dalle mani? Perché non reagisci? Sei uno che uccide la donne a mani nude. È perché hai paura? Ce l’hai? Hai paura? La senti? La riconosci? Quante volte l’hai vista nei suoi occhi? Hai voglia di piangere?

Quante volte l’hai fatta piangere?

Piangeva quando è morta?

Cazzo.

Sento il tempo slittare, scivolarmi intorno, sulla sparachiodi, sulla faccia da stronzo che ti ritrovi.

Sto in silenzio. Non ho niente da dire.
Ti guardo, sento il tuo odore.
Anche tu mi guardi.

Vorrei dirti
alzati.
Picchiami.
Ammazzami.
Vorrei dirti alzati, picchiami e ammazzami.
Fammi vedere come hai fatto.
Fammi vedere come fate. Voi.

Mi avvicino.
Ti inclini all’indietro.
Ti premo la sparachiodi sulla fronte.

Hai le pupille dilatate.

Piangeva quando è morta?

Fermo la mente. Guido i pensieri.

Faccio un respiro profondo.

Dove? Deve essere doloroso, ma rapido.

Osso frontale. Parietale. Temporale?

E per ogni osso sposto la sparachiodi, la faccio scivolare sulla tua pelle sudata.

Zigomatico. Mandibola. Cavità orbitale sinistra. Cavità orbitale destra. Nasale?

Sudi.

La sparachiodi scivola verso il basso, verso destra.

Arteria carotide interna?

Arteria carotide esterna?

Arteria carotide comune.

Pulsa.

Mentre il tempo ha smesso di slittare. È compatto, e mi sorregge.

Ecco.

Qui.

Sento il sangue che pulsa.

Pulsa.

Pulsa.

Pulsa.

Pulsa.

Pulsa.

Fine.

4 pensieri su ““Non c’è”

  1. …mi ha colpito questo: Quando vado al supermercato passo sempre dal reparto cancelleria anche se non devo comprare niente.
    … idem

    …. ho trovato il sito perchè stava cercando un legatrice usata… ma ha trovato la tua Bio perchè hai fatto la legatrice…. devo ammetterlo ho riso.

    poi ho letto questo che commento, solo non capisco lei, lei lui…. io meccanico di cultura non riesce ad infilare la storia forse nel verso…. beh è brutto non lo so ma un aiuto? grazie. Gianluca

    • Lo confesso … Anch’io ho riso …

      Sul racconto. Sono ancora stordita da un rientro epico dalla grecia con traghetti in ritardo e notti insonni, quindi non so, cosa ho capito che non hai capito.

      In questo racconto c’è lei, Cesca. Cesca ha amato, e forse ama ancora Luisa. Ma non è questa la cosa importante, non è questo che la storia racconta. La storia racconta di un moto, un istinto, un desiderio di riequlibrare le cose.

      C’è anche un lui, un lui, purtroppo come tanti, che sicuramente non ama e non ha mai amato Luisa. E che pur di non lasciarla andare, pur di non vederla libera la uccide.

      È un atto profondamente egoistico, questo racconto. Scritto per liberarmi della rabbia, per rovesciare la sensazione di impotenza di fronte a quella che, se le parole avessero ancora un senso, verrebbe chiamata strage.

      Spero di essere stata d’aiuto. Nel caso, son qui.

      A presto, magari in qualche reparto cancellaria …

      Mia

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